(ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
Si è concluso il processo di primo grado sulla presunta “trattativa tra stato e mafia“, in corso da cinque anni a Palermo: sono stati condannati vari politici, alti funzionari dello stato e boss mafiosi. Fra gli altri, l’ex senatore di Forza Italia Marcello dell’Utri, già in carcere dal 2014, è stato condannato a 12 anni di carcere, e la stessa pena è stata decisa per l’ex comandante del ROS Mario Mori e l’ex colonnello Giuseppe De Donno. Il boss mafioso Leoluca Bagarella, in carcere dal 1995, è stato condannato ad altri 28 anni di carcere. L’ex super-testimone Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo condannato per associazione mafiosa, ha ricevuto una condanna a 8 anni. È stato invece assolto l’ex ministro degli Interni Nicola Mancino.
Ciancimino era accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Mancino era accusato di falsa testimonianza. Tutti gli altri erano accusati di violenza a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato.
Il processo riguardava le presunte trattative e scambi avvenuti tra politici, carabinieri e mafiosi nel corso degli anni Novanta. L’ipotesi dei magistrati è che nel corso degli anni Novanta, carabinieri e politici abbiano trattato con la mafia siciliana con lo scopo di far terminare le stragi. A condurre le indagini sono stati i magistrati della Procura nazionale antimafia Nino Di Matteo e Francesco Del Bene. Il processo è durato quasi cinque anni, preceduto da altri cinque anni di indagini, e ha portato a 220 udienze e ad ascoltare oltre 200 testimoni.
L’oggetto delle indagini sono stati i cosiddetti “anni delle stragi” in cui erano avvenuti diversi attacchi violenti, anche molto gravi, da parte della mafia siciliana: l’omicidio del parlamentare siciliano della DC Salvo Lima (12 marzo 1992) e dell’imprenditore Ignazio Salvo (17 settembre 1992), le stragi di Capaci (23 maggio 1992) e di via D’Amelio (19 luglio 1992) contro i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, le bombe in via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993) e in via Palestro (27 luglio 1993) a Milano, le autobombe esplose a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio in Velabro, a Roma, e il fallito attentato contro il giornalista Maurizio Costanzo (14 maggio 1993).
In cambio della fine della strategia stragista, secondo i magistrati dell’accusa, politici e carabinieri avrebbero offerto l’attenuazione del carcere duro per i mafiosi che si trovavano in prigione. Secondo i magistrati la trattativa sarebbe proseguita anche dopo l’arresto del capo della mafia siciliana, Totò Riina, avvenuto nel 1993, e avrebbe effettivamente portato diversi benefici alla mafia. La prova principale, secondo loro, è il mancato rinnovo del 41bis per circa 300 persone condannate per associazione mafiosa (tra cui però non c’era alcun boss, né personaggi di spicco dell’organizzazione criminale).
Il secondo elemento, sempre secondo l’accusa, è il mancato arresto del successore di Riina, Bernardo Provenzano, nel 1995, che sarebbe stato impedito dal generale dei carabinieri Mario Mori. Un episodio, però, che è stato raccontato soltanto molti anni dopo da alcuni pentiti e da testimoni ritenuti poco affidabili, come Massimo Ciancimino. Mori è stato separatamente processato sia per questa ipotetica “mancata cattura” sia per un’altra ipotesi di reato, la “mancata perquisizione” del covo di Riina. In entrambi i procedimenti Mori è stato assolto definitivamente e questo, hanno scritto diversi giornalisti, aveva indebolito molto le posizioni dell’accusa.
In questi anni più volte sono stati espressi dubbi sulla reale esistenza della “trattativa”, per la quale sostanzialmente non si trovano documenti o altre fonti scritte che ne attestino l’esistenza. Quasi tutte le prove consistono in testimonianze rese molti anni dopo da ex mafiosi e personaggi come minimo di dubbia affidabilità. L’unica prova di uno scambio, cioè di qualcosa che la mafia avrebbe ricevuto da parte dello stato, è il mancato rinnovo dei 300 41bis, che però non riguardò personaggi particolarmente importanti.
Il processo sulla trattativa ha avuto anche diversi momenti eclatanti, come la deposizione nel 2014 dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che venne interrogato al Quirinale dai magistrati di Palermo (il testo completo della deposizione si può leggere qui). Un altro momento molto intenso del procedimento fu quando i magistrati, che stavano intercettando Nicola Mancino, registrarono una telefonata tra quest’ultimo e il presidente della Repubblica Napolitano. I magistrati chiesero di poter utilizzare la telefonata, ma la Corte costituzionale ne ordinò la distruzione (la Corte stabilì che non si poteva intercettare un presidente della Repubblica in carica).
Fonte: Il Post
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